Non solo marņ, il caso latinoamericano |
Il numero degli italiani detenuti all'estero è in crescita. Ci descrive il fenomeno Katia Anedda, che presiede l'associazione "Prigionieri del silenzio". L'Annuario statistico 2014 del Ministero degli Affari esteri fornisce dati drammatici sugli italiani detenuti all'estero: il loro numero è salito a 3.422, di cui 2.696 in attesa di giudizio. Buona parte di questi drammi individuali è la conseguenza di processi - farsa: spesso per i magistrati del luogo è preferibile far carriera con casi montati ad arte, che colpiscono cittadini stranieri. E' il caso dell'Operação Corona, inscenata nel 2005 contro sei pugliesi in quel di Natal, nello Stato brasiliano del Rio grande do norte. Ci auguriamo ansiosi di ricevere querele e denunce al riguardo, sì da poter descrivere anche in sede giudiziaria quella sceneggiatura, riassumibile qui come la cronaca di una banale violazione dei diritti umani. Come non bastasse, buona parte di queste tragiche vicende - almeno nei Paesi extraeuropei - vede l'inflizione di trattamenti penitenziari disumani. Restando in America latina, i Paesi col maggior numero di reclusi italiani sono - nell'ordine - Brasile, Venezuela, Argentina e Perù. Per chiarirci meglio i contorni del fenomeno, abbiamo sottoposto a una delle nostre interviste cult, Katia Anedda, presidente di 'Prigionieri del silenzio'. Quest'associazione ( http://www.prigionieridelsilenzio.it/it/ ), fondata nel 2008, lotta per la tutela dei diritti umani degli italiani detenuti all’estero.
Ci può descrivere - in estrema sintesi - gli obiettivi della vostra associazione? «Gli scopi dell’associazione sono stabiliti dall’articolo 4 del nostro Statuto. In buona sostanza cerchiamo di difendere i diritti civili dei cittadini italiani detenuti nelle carceri di Paesi stranieri, sostenendo al contempo le loro famiglie, residenti in Italia. E poi puntiamo a creare un movimento di opinione pubblica, in qualche modo favorevole ai nostri connazionali, reclusi all'Estero.Scendendo più sul concreto, promuoviamo e attuiamo iniziative - di tipo sia economico sia sociale - sia per sostenere le famiglie nell’affrontare le spese legali e giudiziali, sia per il perseguimento di tutti gli altri obiettivi.Attraverso interventi economici e non solo, ci occupiamo anche del reinserimento nella vita sociale di queste persone, dopo che abbiano già scontato la pena.Chiaramente cerchiamo di operare nei limiti delle nostre possibilità; del resto a volte non possiamo contare né sulla sensibilità del nostro Governo, né sull'appoggio delle associazioni costituite dai nostri connazionali all'estero».
Il numero d'italiani detenuti all'estero è in crescita. Crede che il Ministero degli Affari esteri stia affrontando questo problema sociale con la determinazione necessaria? «Penso di no, le nostre Istituzioni hanno troppo cui pensare. Mi appaiono scollegate rispetto all'esigenza di salvaguardare i diritti civili dei nostri connazionali all'estero; e ciò è ancor più evidente per quelli che sono incappati nella matassa della giustizia penale. Le azioni necessarie sarebbero molto costose, mentre al mondo politico ne deriverebbero ben pochi benefici. Naturalmente, sullo sfondo di questo panorama, vi è la grave ignoranza che vige sulla problematica».
Il vostro sito ha pubblicato una drammatica missiva di quattro connazionali reclusi in Venezuela. In generale, cosa può dirci della situazione degli ottanta italiani detenuti in quel Paese? «Sono in condizioni pessime, spesso ricattati dalle Istituzioni locali, e ignorati dal nostro Governo. Se non c'e' un famigliare - o un amico - determinato a puntare i riflettori su di loro, sono abbandonati a se stessi. Come capita a molti, purtroppo, di cui non sappiamo nulla. E mai ne sapremo...».
Un reportage dell''Espresso', pubblicato in estate, descrive le condizioni inumane che vivono i quarantanove connazionali reclusi in Perù. Molti dei quali, costretti dalla crisi a trafficar droga. La vostra associazione ha altre notizie provenienti dal Paese andino? «In Perù, nel dicembre del 2013, si contavano trentatré connazionali in attesa di giudizio e sedici condannati. Sono casi un po' critici, infatti, gran parte di loro è comunque colpevole di un qualche delitto. Seppur la pena e il trattamento siano sproporzionati rispetto al fatto contestato. Inutile dire che sia presso l'Ambasciata, sia presso la società civile, si tende a rimuovere casi come questi. L'opinione pubblica tende a credere che se uno è in prigione, qualcosa avrà pure fatto. Il tutto condito dalla convinzione che tanto a noi queste cose non possono capitare. Sino a che non ci succede qualcosa in prima persona, non ci si rende conto che queste situazioni possono invece giungere - magari inaspettatamente - a stravolgere la nostra vita: ognuno di noi, potenzialmente, è un detenuto all'estero. Ci auguriamo che con le reti sociali - le quali spesso pubblicano quello che i media nazionali non ci dicono - la cultura inizi a cambiare, e la gente a capire. Noi seguiamo cinque casi in Perù. Sono persone non giovanissime, hanno fatto qualcosa di sbagliato e sono state catapultate in una situazione più grande di loro. Ora però la stanno pagando più che cara... ma sono esseri umani. Sono convinta comunque che questo errore non lo ripeteranno. Spesso dai giornali sentiamo d'imprenditori che si tolgono la vita, così ci irritiamo contro il Governo, e ne nascono battaglie politiche. Ebbene, questo è un altro aspetto del suicidio: l'esito finale è stato diverso, ma i motivi che sono stati alla base del loro agire sono gli stessi. Molti di loro non hanno mai avuto problemi con la legge, e si sono trovati in una fase della loro vita, in cui hanno voluto rischiare. Spesso l'unico scopo era dar da vivere alla famiglia. Al posto del suicidio hanno deciso per un rischio estremo, che in un certo senso equivale a un suicidio».
La Camera ha approvato il disegno di legge di ratifica ed esecuzione del trattato sul trasferimento delle persone condannate, firmato da Italia e Brasile. Lo ritiene un passo avanti importante, considerando che nel Paese verde-oro sono reclusi ben ottantasette italiani? «Circa la Convenzione di Strasburgo - e tutti gli Accordi bilaterali che vi s'ispirano - il mio parere è netto: sono norme che fanno letteralmente acqua da tutte le parti, perché sono troppo generiche e lasciano eccessivo spazio alle fumose legislazioni nazionali. E soprattutto ai loro ritardi. Spesso assistiamo a casi in cui il connazionale fa prima a scontare la pena in loco, che attendere il processo burocratico del trasferimento in Italia. Ricordiamoci poi che la decisione finale sul trasferimento è sempre a discrezione del Paese di condanna. E quindi nei delicati casi di connazionali volutamente incastrati, il sistema giudiziario straniero non avrà alcun interesse al trasferimento. Va poi aggiunto che spesso queste normative internazionali sono disapplicate nello Stato di nazionalità del recluso, che tende al rilascio anche quando non ve ne sarebbero le condizioni. Un fenomeno che provoca a sua volta l'irrigidimento dei Paesi di condanna, e in definitiva la quasi totale disapplicazione di questi accordi».
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