I manager italiani visti dall’estero “Sono creativi ma ecco i difetti" PDF Stampa E-mail
Milano- I cinesi li giudicano creativi, flessibili, ma con una tendenza a rimandare le decisioni; i brasiliani li vedono molto simili a loro, perfetti per operare nel tessuto locale, e appassionati; per gli olandesi presentano una certa carenza nella conoscenza delle lingue, mentre i tedeschi li considerano emotivi e ottimisti, ma meno affidabili e strutturati. Sono questi i giudizi che all’estero, nelle economie più sviluppate come nei paesi emergenti, il mondo del business ha elaborato sui manager italiani. A raccoglierli in un’analisi composita è stata Praxi Alliance, l’organizzazione internazionale di executive search di cui il gruppo Praxi è membro fondatore. «Sono sempre di più i manager italiani nel mondo – racconta Fabio Ciarapica, direttore di Praxi Alliance – e sono considerati più “imprenditori” dei manager nordeuropei, più capaci nel gestire le difficoltà, e soprattutto più flessibili ». «Questi manager all’estero – continua Ciarapica – conseguono ottimi risultati come ideatori e sviluppatori di nuovi business, nelle start-up, quando si tratta di aprirsi a mercati inediti, tessere relazioni istituzionali e negoziare un accordo commerciale con un negoziatore locale. Una flessibilità legata anche al fatto che i manager italiani sono meno avvezzi a procedure e standard organizzativi». «In Cina – spiega Eric Tarchoune, managing director di Praxi Alliance China – i dirigenti italiani sono impiegati maggiormente nel settore del lusso, dell’automotive e nel tessile. I loro punti di forza sul mercato sono principalmente la creatività, la flessibilità e l’arte di negoziare ». Diverso è il mercato tedesco, che guarda con un’attenzione maggiore ai settori tecnici e predilige una campagna acquisti di manager italiani formati nel campo ingegneristico. «Per i tedeschi – spiega Klaus Schlagheck managing director di Praxi Alliance Germany – è molto importante avere strutture chiare e obiettivi, competenze e procedure definite ». Posizioni diverse che devono necessariamente fare i conti con l’attitudine della classe dirigenziale italiana a scegliere la via dell’estero. A questo proposito un’indagine realizzata da Manageritalia rivela che il 71,5% dei manager italiani lavora saltuariamente all’estero, ma solo il 30,5% l’ha fatto per periodi fissi, superiori almeno ad un anno. Sul fronte delle aspettative, invece, la maggioranza (il 57,7%) dei dirigenti italiani sarebbe disposto a farlo. «L’85% del fatturato della nostra azienda viene fatto all’estero – racconta Paolo Ghislandi, direttore risorse umane della Same Deutz-Fahr, il gruppo italiano quarto produttore mondiale di trattori e mietitrebbia – e, a parte il quartier generale italiano, abbiamo stabilimenti in tutto il mondo. Alla loro guida però, come accaduto in India, Cina, Russia o Francia preferiamo mettere manager italiani, spesso con un’età che varia tra i 40 e i 50 anni. Ovviamente il commerciale è gestito da dirigenti locali, ma la parte produttiva è meglio che abbia un supervisore italiano». «È una politica – continua Ghislandi – che seguiamo anche con i più giovani. Già dai 30 anni di età mandiamo i nostri giovani di maggior talento a fare esperienza nelle sedi straniere, solo per pochi mesi, senza sradicarli dalla realtà italiana ma il tempo sufficiente per formali e aprirgli la mente». E proprio la formazione è un passaggio fondamentale per superare eventuali arretratezze che molti soggetti attivi sui mercati internazionali addebitato ai manager italiani. Hans Warmerdam, managing director di Praxi Alliance in Olanda, sottolinea che proprio la scarsa conoscenza dell’inglese è una delle cause principali di inadeguatezza dei dirigenti italiani in contesti internazionali. «Purtroppo – spiega Warmerdam – i dirigenti italiani non sono spesso poliglotti, e alcuni sono troppo legati al contesto italiano. Generalmente quelli che riescono a raggiungere il successo all’estero lavorano per piccole o medie aziende, nei servizi e ovviamente nel lusso e nel design». E molti sono convinti che anche la presenza sui social network internazionali, attraverso lo scambio di contatti, commenti e informazioni, aiuti a creare le condizioni favorevoli per la nascita di opportunità lavorative interessanti all’estero. A questo poi si aggiunge la naturale affinità elettiva verso alcuni mercati piuttosto che altri. «È quanto avviene in Brasile – commenta Ana Paula Zacharias, managing director di Praxi Alliance in Brasile – perché quando le imprese locali prendono manager italiani, lo fanno soprattutto perché vedono similitudini con la cultura del posto e riconoscono lo stesso coinvolgimento emotivo durante i processi decisionali». Che sia per una semplice esperienza o che diventi l’inizio di una nuova vita, non solo professionale, la via dell’estero resta comunque per i manager italiani un passaggio obbligato, e il 40% di loro è convinto che l’esperienza internazionale sia indispensabile per la crescita e la carriera. «Un’esperienza estera – conclude Guido Carella, presidente di Manageritalia – è ormai un must per i manager, e anche per la nostra economia, perché solo manager che abbiano esperienza internazionale possono dare alle nostre aziende capacità di muoversi e competere efficacemente nel mercato globale. L’importante è incentivare questo processo e renderlo transitorio, favorendo il ritorno in patria di questi manager con un’economia che dia opportunità di affrontare sfide importanti e stimolanti. Questo è vitale per il nostro Paese».
 
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